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A tu per tu con Francesco Marchini di Ferrari Group

23 Maggio 2022

Una miriade di ricordi, senza trasformarne neanche uno in rifugio. Facile, dopo una vita di successi. Persino naturale, dopo aver aperto e lastricato tante vie. Comodo per tutti, ma non per lui.

Non s’è mai guardato alle spalle Francesco Marchini. Meglio la partita successiva, un altro confine da varcare, la missione di una vita intera da portare a termine. Tappa dopo tappa, senza compromessi.

Come la qualità sfornata da Ferrari Group e Ipierre, le sue grandi creature. Padrone del suo tempo Marchini, scandito a suo piacimento. Decide lui il ritmo delle lancette. Lì nel suo ufficio a raccogliere pensieri e trasformarli in nuove opportunità.

Fiero di quel che è stato, imprenditore fin da ragazzino. A spaziare ovunque, acceso dalle sue idee e alimentato dal duro lavoro di quegli anni ruggenti e complicati. Con la stoffa del cavallo di razza, sempre pronto a tutto. Come chi è sempre un secondo in anticipo. Come lui.

Marchini, il suo più grande successo nella vita professionale?

Non ne ho uno solo. Ho avuto due momenti importanti nella mia vita. Ho lavorato in banca per sedici anni, durante i quali sono anche diventato il direttore più giovane. Ho avuto moltissime soddisfazioni, ma avevo un sogno nel cassetto ed era quello di continuare a fare l’imprenditore.

Prima di entrare in banca un’aziendina ce l’avevo già, io quello volevo fare. Tutto partì da lì, ma fu solo l’inizio. È stato un lungo percorso. Una grande soddisfazione è stata anche aver inaugurato lo stabilimento di Basilicagoiano, quel giorno c’erano nostri clienti arrivati da tutto il mondo per festeggiare con me. Mi ha riempito di orgoglio.

Il passo strategicamente più rilevante?

L’acquisizione di Ipierre. È stata una mia volontà, anche se naturalmente fu poi avvallata dai miei soci. Aver preso quest’azienda con radici così profonde nel mercato del gardening è stato per me davvero significativo, così come riuscire a mantenere vive quelle basi. La struttura è rimasta a Verona, dove abbiamo realizzato anche un impianto logistico davvero funzionale. E devo dire anche bello.

Si resta sempre imprenditori o si può un giorno voltare pagina?

L’imprenditore è qualcosa che hai dentro e che ti stimola sempre a fare e ad intraprendere. Non finisce, non può finire. Non è che una volta fatto il capannone e costruita la tua azienda hai finito di fare l’imprenditore. No, a quel punto bisogna cercare sempre qualcosa di migliorativo.

Per la mia mentalità la strada è quella di frazionare il rischio espandendosi in maniera tale che troverai sempre degli sbocchi. Se io lavorassi per l’80% con un cliente il rischio sarebbe enorme. Perdo lui, perdo tutto. Nel nostro lavoro è lo stesso. È come un orticello con diverse coltivazioni. Questo significa per me essere imprenditore».

Com’è riuscito a coniugare irrigazione, giardinaggio ed enologia? Come li ha tenuti staccati e uniti allo stesso tempo?

Quando sono entrato in Ferrari Group esisteva già una diversificazione. Avevamo due linee: una di giardinaggio, una di enologia che è sempre stato il nostro core business. Bisognava spingere di più nell’irrigazione. Da lì la ricerca e poi l’acquisizione della Ipierre.

In più durante il percorso che ho avuto all’interno della Ferrari è stata inglobata un’altra azienda dove realizziamo tuttora sprayer e piccole serie di idropulitrici professionali. Fermarsi è vietato.

Il viaggio di lavoro che più di tutti non dimenticherà?

Ho seguito a lungo l’estero ed in particolare il Sud America. Ed una delle primissime volte che ho affrontato questi mercati, in particolare Perù, Colombia, Santo Domingo e Costa Rica, ho iniziato con dei clienti veramente importanti. Proprio queste mie prime esperienze ci hanno garantito delle grandi possibilità di espansione e di conoscenze.

L’affare più pianificato di tutti?

Quello più importante è stato Ipierre, oltre alla volontà di realizzare la relativa sede. Abbiamo cercato una location a Verona, in ogni angolo tanto per essere chiari, finché non l’abbiamo trovata a Palazzina, al confine con San Giovanni Lupatoto. Il capannone mi è subito piaciuto moltissimo e credo che l’abbiamo preso nel momento più giusto perché era tutta un’area quasi abbandonata. Penso di averci visto bene, perché adesso s’è costruito dappertutto lì attorno.

E quello più fuori dagli schemi?

L’anno che ho conosciuto il titolare di una Gdo di prim’ordine nel mercato sudafricano. Vennero a trovarmi al Simei di Milano. Arrivarono attorno alle 13.15, dissi che le trattative erano chiuse ma che se avessero voluto sedersi a tavola sarebbero stati naturalmente i benvenuti. Preparai prosciutto crudo, coppa, pancetta e mortadella. Pranzammo più o meno fino alle 14.30, loro poi in programma avevano degli altri appuntamenti. Ci salutammo, ma ci rivedemmo poi nella nostra sede. Chiudemmo l’accordo, da lì iniziò un rapporto davvero molto bello sfociato anche in un fatturato interessante.

Parentesi: chi è stato per lei Dino Bellomi?

È dura, per me. Ci siamo conosciuti in un momento in cui Ferrari Group stava sbocciando. Si dimostrò, allora come sempre, un generoso e disponibile ad aiutarci. Poi ho avuto la fortuna di conoscerlo davvero, proprio per questo è ancora più difficile pensare che ora non ci sia più.

È sempre stato una persona molto umile, professionalmente preparato. Ha sempre dimostrato comprensione, in qualsiasi momento. Perché aveva una sensibilità vera, non di opportunismo. E questa sua qualità gli ha permesso di sviluppare una rivista come MG che ha preso sempre più piede sul mercato.

Il suo più grande pregio e il più grande difetto?

Dico solo il difetto, non amo lodarmi. Il più marcato è che a volte sono molto impulsivo. Non sempre controllo le mie reazioni come dovrei. Forse perché non racconto mai delle balle. Poco ma sicuro.

Un suggerimento ai suoi figli Francesca e Andrea?

Neanche uno, anzi ai miei figli devo solo dire grazie. A tutti e due. Francesca è molto capace nell’attività commerciale, soprattutto quella rivolta ai mercati esteri vista la sua conoscenza delle lingue. Andrea ha grande concretezza, parente stretta del suo lavoro precedente da consulente di aziende di primissima importanza a livello mondiale.

Curiosità: come se la cava dietro ai fornelli?

Il voto, alto, preferisco darlo a mia moglie Leila. Io al limite sono bravo ad affettare…

Piatto preferito?

I cappelletti, come li chiamano nel basso mantovano dove sono cresciuto io. I tortellini, per gli emiliani.

A cena con?

Con Sinisa Mihajlovic. Nel periodo del covid mi ha mandato la sua biografia con una dedica. Il libro è bellissimo. E il suo gesto è uno di quelli che non si può dimenticare. Poi con la mia famiglia, a cui io sono molto legato. A partire dai miei fratelli. Essere uniti e credere nella propria famiglia per me è quel che più conta.

Qual è stata la scintilla che più di tutte le ha suggerito quel che avrebbe fatto nella vita?

La prima società l’ho creata a vent’anni, insieme ad un mio caro amico. Allevamento di vitelli. Facevo l’università e mi mantenevo, per tutto l’anno, vendendo cappotti nei mesi di gennaio e febbraio per la stagione successiva. La modella che utilizzavo per la presentazione dei capi è poi diventata mia moglie. Passo dopo passo, sapevo già che strada avrei preso.

Ma la ricetta del vero imprenditore qual è?

Non essere mai soddisfatti. La ricerca del miglioramento è indispensabile. “Nulla dies sine linea”, dicevano i latini. Non dev’esserci mai giorno senza aver migliorato qualcosa.

Con quale sottofondo musicale?

Una canzone che ha sempre accomunato me e Leila era “California”. Poi, dopo tanti anni, in California ci siamo andati per davvero. Quando abbiamo riallacciato quel filo partito da molto lontano. Un giro bellissimo, da San Francisco a San Diego. Una meraviglia.

Il giardinaggio continuerà ad essere centrale anche finita la pandemia?

È stato molto propedeutico per la maggior parte delle persone dare valore a quello che è un giardino. A partire da un vaso di fiori, semplicemente perché rende la vita più rosa. Più felice. Positiva. Tutto questo ha fatto sì che molte persone si siano ulteriormente avvicinate a questo mondo. E questa sensibilità verrà conservata nel tempo. Prima al garden non veniva data la considerazione che invece avrebbe sempre meritato. Quella che invece avrà in futuro.

Cosa le manca per chiudere davvero il cerchio?

Voglio sempre pensare positivo. Continuare a lavorare ed intraprendere.

I più grandi insegnamenti da cui è partito?

Ho sempre pensato che non ci sia davvero una fine. Ho 74 anni, ma ragiono ancora da cinquantenne. Ho tutta una vita davanti. È quel che mi ha insegnato mio papà Guglielmo. Di avere sempre la volontà e la forza per non fermarsi mai. E poi ho avuto pure l’esempio del signor Ruggero Ferrari, un secondo papà per me. A 97 anni un giorno andò a Schaffhausen, in Svizzera, alla Patek Philippe a proporgli un brevetto. Non si è mai fermato lui. A 99 anni, in un letto d’ospedale, gli proposi di acquistare un terreno per fare un capannone ed allargarci. Annuì con un semplice cenno. La sua decisione l’aveva presa, senza mollare di una virgola.

La molla che muove tutto qual è?

La passione, senza dubbio. Che poi veicoli necessariamente in ragione.

E la passione per il calcio da dove nasce?

Legata ai miei fratelli, molto bravi tutti e due. Maurizio era un portiere da Serie A, ad un certo punto lo soprannominarono “Il ragno nero”. Forte davvero, ma si sposò già a diciott’anni. Alberto giocò anche lui in categoria nel Guastalla, ben presto però dovette fare i conti col duro calcio dell’allora Quarta Serie che mise a durissima prova le sue ginocchia. Li portavo in giro io, essendo il primo.

Un pensiero per i suoi nipoti?

Ai miei nipoti suggerisco di non guardarsi mai indietro. Di essere sempre curiosi. Al fine di imparare. E migliorarsi di continuo. Dedicato a Filippo, Samuele ed Alessandro.

ROTTA DI NAVIGAZIONE:

MEZZO SECOLO DI IPIERRE (intervista ad Andrea Marchini)

LA RIVISTA DI MAGGIO DI MG DA CUI ABBIAMO ESTRATTO QUESTA INTERVISTA

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